XXIX domenica del tempo ordinario

Anche oggi il Vangelo ci mette in cammino con Cristo. Insieme a Lui stiamo andando verso Gerusalemme: manca poco, c’è solo l’episodio del cieco di Gerico (Mc 10,46-52) e poi Gesù farà il solenne ingresso a Gerusalemme.

Ormai il Maestro ha concluso la predicazione alle folle e, in qualche modo, si dedica solo ai discepoli. Purtroppo Egli deve constatare ancora, con amarezza, che continuano a non capire, che fraintendono, che anche nella sua cerchia più stretta c’è un modo di pensare che impedisce di vedere veramente chi Egli è, perché è venuto e perché il Padre lo ha mandato. Siamo ormai dopo il terzo annuncio della passione: Cristo per la terza volta esplicita la sua identità di dono del Padre e dichiara che il Padre lo ha consegnato. Egli è donato agli uomini perché è consegnato dal Padre. Non si tratta della scelta arbitraria di fare l’eroe e di offrirsi per essere una sorta di vittima sacrificale. No, Gesù è il dono del Padre per l’umanità, perché quando l’umanità toccherà la sua carne, allora si rivelerà chi veramente è il Padre. Il Padre ci ritiene degni di “affidarci” il suo unico Figlio.

Gesù per primo contempla questa grande verità: il Padre “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16). Invece quelli che sono con Lui, i discepoli, sembra che continuino a pensare secondo il mondo.

Dio, in sé, ha una vita che è comunione di amore. Vive “a modo della comunione”, in continua offerta di sé, nella forma di dono. Gesù sta dicendo, attraverso tutta la testimonianza evangelica di Marco, che l’uomo secondo Dio è così come Lui: chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato (cf Mc 9,37).  Questo è lo stile di vita di Gesù, questa è la verità che Egli manifesta: Egli è il dono del Padre. Chi Lo accoglie, vive la vita che non solo viene da Dio, come la vita di tutto il creato, ma vive la vita che è secondo Dio, la vita come dono.

Gli apostoli, pur vicini, vivono ancora solo la vita psicosomatica, che manca di “pneuma” (cf 1Cor 2,12-14), come Cristo spiega a Nicodemo, subito all’inizio del vangelo di Giovanni (cf Gv 3,5-6). Per capire, per vedere veramente, bisogna avere la vita di Dio. Per conoscere il regno dei Cieli e per entrarvi, per avere un pensiero secondo il regno, bisogna avere la vita del regno, cioè la vita del Figlio.

Teologicamente qui si trova il bivio: chi pensa secondo la natura, cioè secondo la natura umana ferita, che cerca di salvarsi e dunque vuole provvedere a se stesso, e chi pensa secondo Dio, perché vive una vita secondo Dio, una vita alla maniera di Dio e allora vive come dono.

È un bivio che nel Vangelo ritroviamo tante volte. Una mentalità basata sulla necessità di provvedere a se stessi è la vera conseguenza culturale e antropologica del peccato. È questo lo squilibrio profondo per il quale l’uomo non riesce più a recuperare la vera intelligenza, il vero intelletto, tanto che poi per ricomporre l’intelletto si dovrà aspettare il dono dello Spirito Santo, il dono che è sapienza, per poter conoscere. Altrimenti, anche nella fede si infila il ragionamento di questo mondo: secondo questo mondo, cioè secondo la natura umana, secondo l’individuo che cerca di estendere sugli altri la propria individualità. Perciò non stupisce la domanda, rivolta a Gesù da Giacomo e Giovanni, di essere uno alla sua destra e uno alla sinistra: infatti non sanno neanche cosa stanno chiedendo (cf Mc 10,38).

È evidente che se sapessero che il Suo trono è la croce e che ci sarà uno crocifisso alla destra ed uno alla sinistra, i figli di Zebedeo non chiederebbero mai di poter essere seduti accanto a Lui. Ma la tentazione insinuata dal serpente, il “diventerete” qualcosa di diverso da quello che siete già, qualcosa di più di ciò che avete già ricevuto come dono, rimane attuale sempre.

Cristo allude al Salmo 75,9, a Isaia 51,22, a Geremia 25,15-18, a Ezechiele 23,32- 34, dove il calice rappresenta la sofferenza feroce, tremenda. Un male rabbioso, un’ira che si scatenerà. Questo è il calice da bere, questa è l’immersione – in questo senso leggiamo il riferimento al battesimo del versetto 39 – che aspetta il discepolo.

Un’immersione nella storia, così come plasticamente fa vedere il Salmo 69,  15-16 quando ormai l’acqua arriva alla gola, il fango di un grande temporale, in un nubifragio, dove si scatenano tutte le forze cosmiche del male. Lì si tratta di stare, non badando a se stessi ma vivendo come dono anche in una storia così crudele. La risposta dei due discepoli è pronta, ma ancora secondo un ragionamento di natura che conta su se stessa per riuscire.

 Cristo prende una posizione molto netta rispetto al potere ed esplicitamente perciò dice: “Tra voi però non è così” (cf Mc 10,43). Da nessun’altra parte è scritto così chiaramente. Questa è la mentalità del mondo, lì si ragiona secondo il dominio e l’esercizio del potere. Lui è venuto “per servire e dare la propria vita” (Mc 10,45).

Inutile ripetere quanti fraintendimenti la storia denuncia, quanti “palazzi” manifestano esattamente il contrario. Importante, invece, è puntare lo sguardo su quel piccolo raggio di potere che ognuno esercita, su una piccola cosa, su una piccola decisione. Lì questa parola interroga e illumina circa quale vita uno vive e secondo quale vita pensa. Se quella dell’io individuale, che vuole estendere sul prossimo la propria individualità facendola subire, o quella secondo la vita nuova, quella che non teme di essere dono. È la vita che segue il fiume silenzioso che è la vita del Figlio in noi, quella che invita a lasciarsi portare come dono, a consegnarsi perché il Padre è fedele.

p. Marko Ivan Rupnik