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VI domenica di Pasqua

Con l’avvicinarsi della Pentecoste, cioè del momento nel quale l’amore di Dio è versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato (Rm 5,5), la liturgia si concentra proprio su questo tema: l’amore di Dio. E lo fa ricorrendo alla tradizione detta giovannea, cioè legata all’apostolo ed evangelista Giovanni, che ha fatto di questo amore il tema principale del proprio annuncio. Infatti, sia i passaggi della prima lettera di Giovanni che il vangelo ripetono come un ritornello, con forme leggermente diverse, questo invito ad amare: Carissimi amiamoci gli uni gli altri (1Gv 4,7) dice la prima lettera Giovanni.  E il Vangelo ripete: Rimanete nel mio amore (Gv 15,9). O ancora: Questo io vi comando, che vi amiate gli uni gli altri (Gv 15,12).

Perché questa ripetizione? Perché all’amore abbiamo costantemente bisogno di essere esortati. Non ci viene naturale, spontaneo. E’ costantemente da conquistare. Al tempo stesso, è qualcosa che non può essere imposto dal di fuori, ma deve nascere dal di dentro, essere coltivato in noi per potersi manifestare nelle nostre relazioni. Le letture di oggi ci insegnano in cosa consista l’amore e come esso si sia manifestato.

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V domenica di Pasqua

Io sono la vera vite: un’affermazione che va letta alla stregua delle altre analoghe affermazioni di Gesù. «Sono il vero pane», «Io sono la luce». In queste affermazioni c’è una nota polemica: Gesù è la vera vite, il vero pane, la vera luce. Tutte queste affermazioni indicano che Gesù, e non altri, è in grado di offrirci quella vita che andiamo cercando.

L’affermazione di Gesù («Io sono la vite») introduce una novità rispetto all’Antico Testamento. Là si dice che Dio ha una vigna, qui si afferma che Dio stesso è la vite. Nell’Antico Testamento si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle attese di Dio. Se qui l’evangelista Giovanni può affermare che la vite è finalmente all’altezza delle attese di Dio, è unicamente perché Gesù è la vite.

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IV domenica di Pasqua

Io sono il pastore: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro i lupi e per la croce. Io sono il pastore bello, aggiunge il testo greco. E noi capiamo che la bellezza del pastore è il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio. Capiamo che la bellezza è attrazione, Dio che crea comunione. Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi? Con un verbo ripetuto cinque volte: io offro la mia vita; la mia vita per la tua. E non so domandare migliore avventura. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio, il comando che fa bella la vita: il dono. La felicità di questa vita ha a che fare col dono e non può mai essere solitaria.

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III domenica di Pasqua

La frazione del pane (nell’episodio dei due discepoli di Emmaus) è per san Luca il mistero nel quale Dio, oggi, si può comunicare di più alla nostra anima.

Le apparizioni non devono avvenire. Sempre Egli sarà con noi, ma non lo vedremo. Però la sua presenza non è inattiva; essa dona alla nostra anima di risorgere pian piano, dall’incredulità alla fede, dalla disperazione alla speranza, dalla mancanza di amore (perché ormai Dio era morto; «non ardeva il nostro cuore?») all’ardore di carità. Qual è la vita cristiana dopo la resurrezione del Cristo? Quella che gli apostoli non avevano mai conosciuto prima della resurrezione: l’esercizio delle virtù teologali. Infatti la speranza degli apostoli prima della morte era soltanto quella di essere a destra e a sinistra di Gesù quando sarebbe stato al governo del mondo; la fede dei discepoli era in Gesù come rabbì, non come Figlio di Dio, non come Colui dal quale dipende la salvezza del mondo, salvezza escatologica.

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II domenica di Pasqua

Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”».

Gesù sta in mezzo ai discepoli e rivolge loro questo saluto, un saluto che riceviamo anche noi ogni volta che celebriamo l’Eucarestia: «Pace a voi».

Nella sua lingua, Gesù deve aver usato il termine: shalom; cosa significa questa parola? Essa non è un augurio e nemmeno un saluto normale: un aneddoto che ho trovato su un libro di cui non ricordo l’autore può spiegare il significato del termine shalom:

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