XXX domenica del tempo ordinario

Per cogliere la portata della risposta di Gesù alla domanda sul comandamento grande, la liturgia di oggi ci offre varie porte di accesso. Il brano evangelico risponde a due grosse domande che serpeggiano nel nostro cuore: 1) che tipo di amore Dio ci richiede se ci comanda di amare? 2) dato che il comandamento riguarda l’agire, interiore e esteriore, allora cosa cerchiamo con il voler osservare il comandamento?

Sebbene fosse usuale tra gli scribi del tempo la domanda circa la determinazione del comandamento grande tra i tanti precetti, negativi e positivi, della Legge, mai nessuno prima di Gesù aveva mai collegato insieme i due passi scritturistici: Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” e Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). Gesù li cita stabilendoli come il primo e il secondo comandamento, capaci di riassumere e di fondare tutti gli altri. Ma in cosa risiede la novità della risposta di Gesù? La prima novità sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando che il secondo è simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini, al di là dell’appartenenza al popolo d’Israele. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture ponendo i Profeti sullo stesso piano della Legge e alludendo con ciò all’unità delle Scritture, che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

L’allusione a un nuovo modo di accostarsi alle Scritture, come il raccordo tra i due comandamenti, hanno a che fare con la rivelazione che da lui procede, che attraverso di lui si compie. C’è una tensione di compimento dietro le sue parole, tensione che la liturgia insegna a intravedere con il canto di ingresso, il salmo responsoriale e il canto al vangelo. Di quale Dio ci si fa comando di amare? È il Dio dell’alleanza, per la gioia che ci procura e per la forza che ci infonde, come canta l’antifona di ingresso: “Gioisca il cuore di quanti cercano il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, presa dal salmo 104, che può essere definito la celebrazione della fedeltà di Dio. Recita il ritornello del salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza”, dal salmo 17, con il quale si canta l’amore di Dio per noi che dall’alto ci tende la mano e che si abbassa a noi per farci grandi. I comandamenti hanno dunque a che fare con l’esperienza di una storia sacra, di una nostalgia vicendevole tra Dio e l’uomo; non sono imperativi categorici o religiosi, ma alludono alla possibilità per noi di vivere e gustare quell’alleanza che ci precede e ci accompagna. I comandamenti rimandano ad un’esperienza gioiosa, che la colletta interpreta facendoci pregare: “O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli …”.

La novità che Gesù fa intravedere ha una dimensione ancora più misteriosa e più potente. Il brano evangelico è introdotto dal canto al vangelo, tratto da Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”. Il comandamento allude a una possibile rivelazione, la rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ma la rivelazione è data dalla osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di Giovanni al brano di Matteo vuol significare che non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché? Nella risposta a questo interrogativo si cela anche la ragione dell’abbinamento dei due comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e il prossimo, dopo, sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.
La frase di Gv 14,23 costituisce la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del discorso di Gesù: “... viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre” (14,30). Purtroppo, la traduzione italiana non fa cogliere la contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha i miei comandamenti…’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi ha l’esperienza dell’amore del Padre, chi fa l’esperienza dell’essere amato dal Padre, non ha bisogno di nulla e nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che sono l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno gli può sottrarre questo amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma la promessa di Gesù è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui. Così i comandamenti hanno a che vedere con il fatto che ‘bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre’. Vale a dire: la pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità.
Così il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per loro. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. E in questo possiamo abbozzare la risposta anche alle prime due domande: il comando dell’amore procede da un’intimità e dalla ‘reazione’ a un’offerta al cui fascino non ci si può sottrarre; lo scopo della pratica del comandamento non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.
Si realizza quello che Gesù aveva promesso: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Gesù è nell’amore del Padre per noi e noi, in lui, veniamo assunti nello stesso movimento di manifestazione dell’amore del Padre a tutti. In questa prospettiva risulta illuminante proprio la lettura del brano dell’Esodo perché, delle norme del Codice dell’alleanza, viene accentuata la pratica del bene rispetto alla cura dei deboli. La vedova, l’orfano e il forestiero sono le categorie di persone essenzialmente ‘deboli’ perché senza protezione. Proclamare allora nel salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza” significa alludere alla forza tipica di Dio che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Chi calpesta il debole calpesta l’amore di Dio che sta con gli ultimi; impedisce a Dio di essere conosciuto in questo mondo. Chi calpesta il debole non conosce Dio.

padre Elia Citterio