XXIII domenica del tempo ordinario

Le parole di Gesù suonano così perentorie da incutere timore: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo … Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Non sono parole dette in astratto, ma rivolte proprio a chi era rimasto affascinato da Gesù e lo seguiva. È come se Gesù volesse ribadire: non crediate di ottenere vantaggi venendomi dietro. La posta in gioco è assai più alta.

Per tre volte nel brano viene sottolineato: “… non può essere mio discepolo”. Si tratta appunto di cogliere in cosa consista essere discepolo di Gesù, cosa comporti per il cuore essere discepolo di Gesù. Intanto, vale subito la distinzione: un conto è diventare discepolo di Gesù; un conto è esserlo, continuare ad esserlo nel cammino della vita. L’entusiasmo dell’inizio si deve trasformare nello zelo della vita quotidiana lungo tutto l’arco della vita. Ma il punto vero credo stia altrove. Si tratta di intuire/sperimentare quale segreto celi l’essere discepolo di Gesù.

Nel suo lungo colloquio con i discepoli, nell’ultima cena, prima di essere arrestato e processato, Gesù svela il segreto dell’essere suo discepolo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,12-15). E queste parole sono precedute dalla similitudine della vite e dei tralci a sottolineare l’intimità di vita dei discepoli con il loro Maestro. Ora, se questo è il contenuto dell’essere discepoli, sperimentato nel cuore e tradotto in radice di vita per essere trovati nello stesso amore che ha mosso Gesù nel testimoniare al mondo la grandezza dell’amore del Padre, allora non esistono altri valori che possono attrarre il cuore al di là di questo. Non ci sono altri affetti né doveri, pur sacrosanti, che possono costituire la radice di vita dei cuori. Neanche la propria stessa vita può essere preferita a questo, perché è proprio questo che dà senso e valore alla nostra vita.

L’evangelista Luca sintetizza la rinuncia ai propri affetti e alla propria stessa vita con l’espressione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Io commenterei così. Non si tratta tanto di non avere beni, ma di non averne più. La sottolineatura non riguarda i beni, ma il cuore. Se il cuore trova la vita in Gesù, non la cerca più in altro, non trattiene più nulla per se stesso ed è pronto a condividere tutto con i propri fratelli, accettando le afflizioni del vivere o le possibili ingiustizie come luogo ove far splendere l’amore comunque. In questo senso l’espressione: “Colui che non

porta la propria croce e non viene dietro a me” indica chiaramente dove sta il nesso di valore. Non si tratta semplicemente di portare la croce, ma di portarla nello stesso cammino di Gesù; non si tratta di resistere alle afflizioni di ogni genere, ma di viverle nell’ottica della testimonianza di Gesù per far risplendere l’amore di Dio. Non è il dolore ad essere redentivo, ma l’apertura all’amore di Dio che rende redentivo lo stesso dolore.

La liturgia di oggi si domanda: sarà mai possibile seguire Gesù senza accedere alla sapienza che viene dall’alto? Ripetendo con il salmo 89: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”. Ora, la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto risulterà sbarrato. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?

Qui si cela il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio, che fa da criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri. Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.

padre Elia Citterio