IV Domenica di Pasqua

L’immagine di fondo della liturgia odierna è quella del buon pastore, anche se il brano evangelico non la riporta espressamente, fermandosi all’immagine della porta. Basta però continuare la lettura del capitolo 10 di Giovanni per accorgersi che l’immagine di riferimento è proprio quella del buon pastore. Tutta la liturgia è focalizzata su questa immagine potente, sebbene essa non susciti più in noi le stesse risonanze che poteva suscitare nei contemporanei di Gesù. Vorrei provare a far riemergere udibili per il nostro cuore quelle risonanze.

Il discorso di Pietro riportato dagli Atti degli apostoli a Pentecoste è commentato dalla liturgia con il salmo 22 (23) che inizia: “ Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla …”. Quale collegamento tra il salmo e il discorso di Pietro? Coloro che lo ascoltavano, probabilmente gli stessi che cinquanta giorni prima avevano partecipato o comunque avevano saputo della vicenda di Gesù, si sentono trafiggere il cuore. Le parole di Pietro sono toccanti, coinvolgenti. Spontanea la domanda: cosa possiamo fare adesso? E Pietro li invita: convertitevi, fatevi battezzare e riceverete lo Spirito Santo. Noi interpretiamo in rapporto ai sacramenti che riceviamo nella chiesa. Pietro però sottolinea la valenza dinamica dei passaggi che il suo invito comporta. Il mio tornare a Dio comporta l’essere seppellito con Gesù rispetto a tutto ciò che questo mondo esalta sotto l’azione del principe di questo mondo (potere, prestigio, supremazia, gloria) in modo da essere guidato dallo Spirito a vivere ogni situazione unicamente nell’esperienza dell’amore di Dio. Questo significa essere ricondotto, come dice la prima lettera di Pietro, al pastore delle anime nostre.

Il salmo 22, soprattutto secondo il testo greco e latino, definisce l’azione del pastore nei nostri confronti come un guidarci a un luogo di ristoro dove trovare conversione (che il testo ebraico riporta come un ‘rinfrancare’). È interessante collegare questa azione a quella che, sempre Pietro, nella sua prima lettera, dice avvenire nel cuore dei credenti: “ se facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio” (1Pt 2,20). Il testo dice espressamente: questa è la grazia! È l’azione di grazia del pastore delle nostre anime quando è accolto da noi. E il cuore può lasciar operare questa grazia perché ha gustato il ‘ristoro’ che il pastore procura.

È il ristoro di un’umanità rinnovata, che torna luminosa, che non si fa ingabbiare da nessuna lusinga del mondo perché non c’è confronto tra la vivacità e fecondità dell’amore goduto e la volontà di dominio che si pensa dover esercitare per garantirsi la felicità o perlomeno la libertà di procurarsela. Quando Pietro descrive Gesù, nel suo essere pastore delle nostre anime, lo descrive così: “ soffrendo non minacciava vendetta”. A questo io collego l’espressione forte di Gesù rispetto a noi che lo vogliamo seguire: “ Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-15).

Il conoscere è in rapporto alla disponibilità a porre in gioco la propria vita. La particolarità dell’espressione di Gesù sta nel fatto che, non solo dà la sua vita per le pecore, ma che dà la vita alle pecore. Fa in modo cioè che la vita sua passi a noi, perché anche noi viviamo di quella stessa vita, che è splendore di amore. È l’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori.  Per questo possiamo dire che il Signore è il nostro pastore e non manchiamo di nulla, perché, una volta che si sia entrati nella prospettiva di una vita vissuta nell’amore, non c’è nulla che ci potrà distogliere, non c’è nulla capace di rapircela, nulla sarà superiore all’amore. Non è però una conquista puntuale, ma un vero e proprio processo di vita, il vero processo di conversione.

Lo ricorda Pietro con l’invito a convertirsi: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel Trafitto, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere in quel trafitto lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel Trafitto ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore. Proprio come chiediamo nella colletta: “O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita”. ‘Infondi in noi la sapienza del tuo Spirito’ allude alla possibilità di accogliere la comunione con Gesù perché il suo amore sia reso noto in questo mondo.

Ultima annotazione. Non si chiede di mettere in pratica i comandamenti ma, più umilmente, di riconoscere la voce del Cristo. Dalla voce alle parole: questo è il passaggio dell’esperienza dell’amore. I comandamenti sono tutte opportunità di vivere l’amore che ci sentiamo arrivare dalla voce, riconosciuta, dell’Amato. 

padre Elia Citterio