XXVII domenica del tempo ordinario

La parabola di oggi è la seconda delle tre rivolte da Gesù direttamente alle autorità del tempio e della nazione. Essa ha un sapore profetico preciso: allude alla imminente passione di Gesù che incontra l’ostilità ormai dichiarata dei capi religiosi. Il contesto narrativo è altamente drammatico, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, allorquando si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro però non deriva dall’ira, ma da una passione d’amore.

Per cogliere tutta l’intensità di quella passione d’amore basta leggere il brano di Matteo con il corrispondente di Luca 20,9-19. Nel testo di Luca, i contadini percuotono, insultano, feriscono i servi (= i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che, dopo averlo cacciato fuori della vigna, lo uccidono. Il figlio è presentato come l’amato. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio amato, come viene testimoniato dalla voce del Padre al battesimo e alla trasfigurazione?

Se la liturgia di oggi fa proclamare nel canto d’ingresso: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, parole pronunciate dalla regina Ester nel momento più drammatico della sua vita (cfr Est 13,9), lo fa riferendosi alla fedeltà di Dio nel suo amore per il popolo, amore che viene descritto dal passo del profeta Isaia della prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature coniugali ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

Non per nulla, il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo. Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo. In effetti, nel racconto della parabola, non si dice che i contadini non hanno consegnato il raccolto, ma che non hanno il raccolto da consegnare. Non hanno lavorato la vigna come avrebbero dovuto e quindi i frutti non ci sono. La scelta di Dio è in rapporto al frutto, nel senso che, se Dio stabilisce un’alleanza, vive un’intimità con qualcuno, è perché questo qualcuno risponda a quell’alleanza nella sua vita concreta, nelle relazioni che vive, in modo che tutti possano conoscere quanto è grande il suo amore.

Così, quando Gesù, applicandosi il Sal 118,22 (“La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo), esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, non intende certo escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma intende far prevalere la logica della rivelazione di tutte le Scritture: l’elezione è in vista del portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti godano dello stesso amore. Gesù è colui che questa elezione vive nella sua carne al massimo grado possibile e perciò costituisce, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo splendore di amore che l’ha originata e di cui ne sostiene la dinamica.

Dinamica che Paolo, scrivendo ai Filippesi, dichiara rivelarsi nel fatto di essere lieti nel Signore, lui che ci ha manifestato così grande amore. Letizia, che si trasforma in amabilità nei rapporti con tutti, in speranza del regno che viene e nel fatto di non angustiarsi per nulla, poiché, come dice Pietro nella sua lettera: “… riversando su di lui tutte le vostre preoccupazioni, poiché gli state a cuore” (1Pt 5,7).  Per questo l’apostolo invita a elevare preghiere, suppliche e ringraziamenti, interessandosi di ogni cosa buona per esprimere nella vita quello splendore che ha illuminato il cuore. Nel suo testo però Paolo dice una cosa misteriosa, non immediatamente accessibile alla nostra psicologia interiore. Invita a stare nella supplica della preghiera con rendimento di grazie. Se non si fa riferimento alla rivelazione di Gesù come pietra d’angolo, non solo in rapporto a ebrei e gentili, ma rispetto a tutte le tensioni che accompagnano la nostra vita e che in lui trovano modo di saldarsi in ricchezza di umanità, come poter rendere grazie nella supplica originata dalla ferita della prova? A questo si ricollega anche la parola di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,25).

Nella parabola poi si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato dal padrone (‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’) ne è un esempio. Se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al Figlio non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo, senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di uomini peccatori!

padre Elia Citterio