XXII domenica del tempo ordinario

Di nuovo la grande questione che la liturgia propone oggi è la questione dell’intelligenza della vita. Gesù rimprovera i suoi discepoli: “Così neanche voi siete capaci di comprendere?” (Mc 7,18). Nel libro del Deuteronomio, Mosè dice al popolo: “Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente” (Dt 4,6). Interessante notare la ragione di tale intelligenza: “Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,7). Ecco, la vicinanza di Dio, la percezione della sua vicinanza, l’esperienza custodita della sua vicinanza, questa è la radice di intelligenza. Il che significa che il cuore dell’uomo ha bisogno di quella ‘prossimità’ per fiorire nella sua umanità. E, nello stesso tempo, significa che è la parola di Dio a nutrire il cuore dell’uomo, a custodire il suo cuore.

A sottolineare la verità, niente affatto scontata, di questa intuizione santa, il testo del Deuteronomio aveva premesso: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio” (Dt 4,2). Solo il comandamento di Dio ha il potere di portare la vita. Ma è così facile per l’uomo aggiungere e togliere, rivestendo i suoi ideali o i suoi obblighi di coscienza con la nobiltà del comandamento di Dio. Quando però l’esecuzione del bene non porta la vita, vuol dire che al comandamento di Dio abbiamo aggiunto o tolto e proprio in quell’aggiungere o togliere ci esponiamo all’illusione e poi alla delusione.

Ben a proposito, quindi, la Scrittura dice: non aggiungere né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un comandamento, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso mangiare per avere la conoscenza…! E incontra la morte.

L’aspetto misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter accogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge, fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose [parole] che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita”.

La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14 (15), il quale riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur nobile, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica deriva spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, obblighi, esclusivamente umani. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore, ma solo con l’apparenza, con la società, con i vincoli di coscienza. Le parole di Gesù si riferiscono a un problema particolare, quello della purità rituale quanto al cibo (negli Atti degli apostoli, ascolteremo ancora Pietro dire che nella sua bocca non è mai entrato nulla di impuro!) ma hanno un valore generale. Forse, non teniamo sufficientemente in conto che l’osservazione di Gesù sul fatto che è dal cuore che proviene ciò che può contaminare l’uomo e non dai cibi, stabilisce una perfetta uguaglianza tra gli uomini. Ogni pratica rituale è separante nel senso che stabilisce confini e distanze tra gli uomini, mentre Gesù plaude a una solidarietà piena, davanti a Dio, di tutti gli uomini. Ciò che rende impuro l’uomo vale allo stesso modo per tutti gli uomini. Così non ci sono più distinzioni tra gli uomini, perché tutti siamo confrontati con le stesse cose e con lo stesso bisogno di invocare Dio.  

 

P. Elia Citterio