Prima domenica di Avvento

È caratteristico che il tempo liturgico si chiuda e si apra con il riferimento allo stesso brano evangelico. L’attesa del Signore che viene è considerata nella sua valenza escatologica (il Cristo glorioso che verrà come giudice alla fine della storia), nella sua valenza profetica (Gesù che entra nella storia con la nascita a Betlemme), nella sua valenza mistica (il Signore che nasce e cresce nei cuori). Al centro dell’Avvento sta la figura di ‘Colui che viene’, espressione che è sempre stata riferita al Messia, a Colui che avrebbe fatto vedere presente il Regno di Dio. Dire ‘colui che viene’ è riferirsi a colui che salva, al Salvatore che realizza la salvezza.  

Il tema della vigilanza, tipico dell’Avvento, si innesta nella corrispondenza tra l’antifona di ingresso: “Mio Dioin te confido” e il versetto 14 del salmo responsoriale: “Il Signore si confidacon chi lo teme”, versetto che il testo ebraico proclama in modo ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Il segreto del Signore è quello rivelato dal profeta Geremia, mentre si trovava in prigione e riceve la rivelazione: “Invocami e io ti risponderò  …perdonerò tutte le iniquitàverranno giorni nei quali iorealizzerò le promesse di bene che ho fatto”. E il salmo, come interpretando i bisogni del cuore dell’uomo e la difficoltà di incontrare il Signore che viene, continua a sottolineare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.

La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui chealza il capoper essere capace divederele promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.

L’esortazione alla vigilanza allude all’attesa del cuore, mentre l’invito alla preghiera allude alla possibilità del compimento delle promesse di Dio. Attesa e promessa che sono ben espresse dalle parole di Gesù riportate in Giovanni: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a luiSe uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Costituisce il godimento dell’ultima promessa di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E che il prefazio della liturgia di Avvento interpreta: “Ora che egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno”.

Il compimento di quelle promesse si sperimenta in ciò che Paolo esorta a vivere scrivendo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi, con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita, non può non riflettersi nell’attesa, avvertita imminente, del ritorno di Gesù. Ben presto però le comunità cristiane si sono rese conto che l’imminenza non riguarda i tempi, bensì la dimensione mistica, quella che corrisponde all’esperienza trasformante della rivelazione dell’amore di Dio che in Gesù si fa toccabile. È una esortazione alla speranza, che deriva dalla confidenza in Colui che è il testimone supremo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Con lo sguardo fisso su di lui, anche noi cresciamo nella disponibilità a rendere la nostra vita, con lui, segno dell’amore del Padre che ci chiama tutti alla stessa mensa.

E ritornando al brano evangelico di oggi, potremmo comprendere l’invito ad alzare il capo in questo modo: cercate di cogliere il segreto di Dio che vi viene incontro; cercate di bucare la cronaca con uno sguardo acuto per vedere il Signore che viene, vale a dire: lasciatevi attrarre dalla potenza dell’amore del Signore che vuole liberarvi dai vostri ripiegamenti su voi stessi. Guardare in alto e guardare dall’alto significa guardare nel profondo e dal profondo vedere le cose. Se il regno di Dio non è di questo mondo, è però per questo mondo. Così, aspettare il Signore che viene, significa essere attratti nella stessa dinamica di invio del Messia al mondo perché l’amore di Dio sia conosciuto.

 

padre Elia Citterio