XIII domenica del tempo ordinario

La necessità di rendere in un buon italiano il testo del vangelo a volte fa perdere le sfumature di riferimento per comprenderne a fondo il senso. È il caso del brano di oggi. Inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme dove si compirà la sua passione (9,51-19,28). Nella descrizione di Luca la narrazione assume toni solenni e del tutto speciali anche nel linguaggio. Leggiamo: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. … non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme”. Letteralmente invece suonerebbe: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (termine che può indicare sia la morte che l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli angeli […] non vollero riceverlo, perché il suo volto stava seguendo il cammino verso Gerusalemme”.

Gesù aveva già preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. Il racconto di Luca fa risuonare le parole del profeta Isaia: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso” (Is 50,7) e quelle del profeta Malachia: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi  sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,1).È singolare che, nel cammino di Gesù verso Gerusalemme, il primo rifiuto venga dai samaritani, proprio loro che avevano accolto e creduto a quel profeta (cfr Gv 4,39-42), proprio loro che, nelle parabole di Gesù, sono sempre considerati con un occhio di riguardo. Evidentemente i discepoli, che avevano preso la decisione di Gesù di andare a Gerusalemme come l’inizio di una marcia di ‘conquista’ per l’instaurazione del regno di Dio, mal sopportano che il loro Maestro venga trattato in quel modo e vorrebbero dar loro una lezione. La risposta di Gesù a Giovanni e Giacomo è la medesima che a Pietro (cfr. Mt 16,23), netta e tagliente: non capite nulla, venitemi dietro e basta, altrimenti non vi troverete dalla parte di Dio. Chi cerca di cambiare la via di Dio assomiglia a Satana, fa il gioco di Satana. Il rimprovero che Gesù rivolge ai discepoli è dello stesso tono del rimprovero che indirizza ai demoni (cfr. Lc 9,42). Quello che Luca più avanti dirà del Figlio dell’Uomo che è venuto per salvare (cfr. 19,10) equivale a quello che Matteo dice di Gesù definendolo mite e umile di cuore (Mt 11,29). Se questa è la via di Dio, allora scegliere altre vie significa  allontanarsi da Dio. La fedeltà di Gesù, sottolineata con l’espressione profetica del rendere la faccia dura come pietra, è la fedeltà a un amore che non si lascia mai distogliere dal suo obiettivo perché è il segreto di Dio che deve essere rivelato agli uomini: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Gesù porta a compimento la fedeltà dei profeti, che non potevano ancora conoscere in tutta la sua consistenza quel segreto e rimprovera i discepoli che volevano imitare il profeta Elia (cfr. 2Re 1,10-12). E quando esige dai discepoli certe condizioni per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della sua stessa fedeltà, che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo consiste la missione degli apostoli!). Di fronte alla scoperta di tale segreto, non  c’è bene o valore umano che possa prevalere.

 La condizione prima è accettare il modello di Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. E s. Chiara di Assisi commenta: “Cristo non ha dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo altrove, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima, non segue Cristo; solo chi cerca il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del segreto di Dio è beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù. L’unico luogo di riposo del capo di Cristo è il volere del Padre e il volere del Padre è l’amore sconfinato agli uomini. Dello splendore che deriva da quell’amore, manifestato

 da Gesù, parla l’urgenza che attraversa il brano di oggi.

 Così, l’espressione del salmo: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene” (Sal 15/16,2) va letta come dichiarazione d’amore: posso avere tante cose, ma se non ho te, che vale la vita? L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’. Nessun presunto bene è bene per me senza di te! Nessun bene è tale se non contribuisce a manifestare quel segreto di Dio, il suo amore agli uomini. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano e  finalmente ci si possa riposare. Quando Gesù, in un crescendo di espressioni perentorie che illustrano le condizioni per seguirlo, afferma: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” rivela una grande verità per il cuore dell’uomo. L’uomo, è vero, non è degno del Regno, ma adatto, sì. Il che significa che la misura del cuore dell’uomo è proprio il Regno. Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene adatti ai misteri di Dio (si veda At 13,46)! E quando l’uomo non accoglie umilmente questa verità si fa violenza e la eserciterà su tutti; sarà in preda del tormento della morte e il mondo è prostrato  dagli effetti di tale tormento. Per questo Paolo nella seconda lettura parla di ‘libertà liberata’. È la libertà frutto dell’amore, che non teme di sottomettersi ai fratelli pur di non essere distolti dalla partecipazione al segreto di Dio. La colletta ci fa pregare: “O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la  forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli”, dove ‘servizio’ non sta semplicemente per azioni buone ma per atteggiamento del cuore, del cuore di un uomo che ‘ha indurito il suo volto’ per non mancare lo scopo della sua vita. E giustamente la preghiera chiede di sperimentare la forza e la dolcezza del suo amore: la forza senza la dolcezza opprimerebbe, la dolcezza senza la forza snerverebbe.

L’esercizio della libertà ha bisogno di forza e dolcezza insieme.

padre Elia Citterio