XXII domenica del tempo ordinario

Le letture di oggi rivelano la dimensione insospettata dell’esperienza della fede in Gesù. Potremmo collegare il severo comando di Gesù a Pietro: ‘stammi dietro, non davanti’ all’esperienza drammatica del profeta Geremia: ‘mi hai fatto violenza e hai prevalso’, compresi nell’ottica di Paolo che scrive alla comunità di Roma: ‘non conformatevi al mondo, trasfigurati secondo l’uomo nuovo in Cristo’.

Cosa c’è in gioco nella fede in Gesù? Guardiamo a Pietro. È proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “ Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “…  vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33,23)]. Eco anche della disponibilità del popolo a seguire Dio prima che a capirlo:  “Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7). Da notare la successione dei verbi: prima eseguire, poi ascoltare. Nell’ascoltare è sottolineata la disponibilità a mettere in pratica, non la capacità di capire.

Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore, tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana, come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia ad ogni prospettiva mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT, al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso è la seguente: imparare a custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché la vita torni bella e desiderabile sempre.

Quando Gesù spiega ai discepoli il suo dover soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo; intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’ indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). La difesa porta sempre sulla vita che temiamo venga oppressa o mortificata; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio. La conformazione al mondo riguarda la difesa di sé come principio supremo. La trasfigurazione secondo l’uomo nuovo riguarda la consegna di sé per godere del dono di Dio.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘ il tuo amore vale più della vita’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “ Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare se stessi per avere la vita in se stessi.

Nella reazione di Pietro vediamo la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo ” tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne” (Sal 62). Ma è vero anche che, nel concreto delle situazioni, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio, finiamo sempre per riscegliere noi stessi misconoscendo il Signore. Con accenti drammatici, lo esperimenta anche il profeta Geremia: ” Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre“, ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo ” Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome“. A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: ” Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo“, noi fin troppo bene riusciamo a contenere quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di godere la vita e impedendolo anche agli altri. Non rimaniamo conquistati, non ci lasciamo conquistare, come invece è avvenuto per Geremia, per Paolo. In noi prevale la paura.

L’espressione finale del brano, che normalmente si traduce con “ e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”, nel testo di Matteo, che unisce la figura del giudice a quella del messia, acquista una valenza insospettata. È il giudizio sulla fede, non sulle opere. Letteralmente la frase andrebbe resa con “allora renderà a ciascuno secondo il suo modo di agire”, intendendo: il giudizio verterà sulla relazione con Gesù. In particolare, sullo star dietro e non davanti, sull’eseguire e non sul suggerire, sulla rinuncia a ogni prospettiva mondana pur di stare dalla parte di Gesù. In pratica, sull’aver rinnegato se stessi e aver portato la croce, sull’essere discepoli che non cercano la gloria del messia ma la compagnia del messia, comunque, nella capacità di discernere la volontà di bene di Dio, comunque. 

don Vigilio Covi